Gente Comune .. e il Baccalà agrodolce

Di Oscar Francioso



Tutti conoscono Robert Redford (classe ’36) come attore. In effetti ha recitato in film molto belli ed è nota la sua collaborazione con Pollak. “Corvo rosso non avrai il mio scalpo” (Jeremiah Johnson, 1972), “I tre giorni del condor” (Three Days of the Condor, 1975) e “La mia Africa” (Out of Africa, 1985), per citarne alcuni. Pochi, invece, conoscono Redford come regista. Meno ancora sanno che l’unico Oscar che ha vinto – tralasciando quello onorario – gli è stato assegnato non la recitazione, ma per la regia. “Gente Comune” (Ordinary People, 1980) è un bellissimo film tratto dal romanzo “Gente senza storia” di Judith Guest del 1979, brillantemente sceneggiato da Alvin Sargent. 

La pellicola è da vedere, quindi non mi dilungo troppo sulla trama. I Jarret sono una famiglia borghese, recentemente colpita da un lutto: il loro figlio maggiore è morto. In seguito, il minore (interpretato da Tim Hutton) tenta il suicidio. Il film segue le vicende della famiglia, che cerca di elaborare la perdita. Ci sono quindi la madre, interpretata da Mary Tyler Moore, che vuole “salvare la facciata” e il padre (Donald Sutherland) che fa da mediatore nel complesso rapporto tra moglie e figlio. I

Il film è molto lento. Lento non significa noioso. Significa solo quel che significa: lento. L’elaborazione del dolore è una cosa lenta, quindi sia storia sia regia si sviluppano nello stesso modo. Redford gira in modo invisibile, lasciando perdere inutili barocchismi e raccontando la storia per quella che è. L’unico vezzo che si concede, se vogliamo, è l’uso di una fotografia un po’ spinta nei momenti di maggiore tensione, ma lo spettatore se ne accorge appena. Motivo: il tipo di regia è giustificato dalla storia e viceversa. 

I film diretti da attori hanno, nella maggior parte delle volte, una marcia in più. Questo perché il regista diventa in grado di parlare con più precisione ai suoi collaboratori. I primi piani nella pellicola sono splendidi: Redford sapeva di poterli gestire. E c’è riuscito. Tutti, sotto il sorriso, celano una specie di dolore latente. Dal più pronunciato Tim al più nascosto Sutherland, i cui sorrisi sono benevolmente falsi. Il commento musicale di Gente Comune è praticamente ridotto all’osso. Realizzare un film senza commento o con un commento limitato è difficile. 

La pellicola rischia di diventare pesante – anche se in alcuni casi è proprio questo il fine del regista. In pochi ci sono riusciti. Allen è tra questi. Pensate a “Settembre” (September, 1987) o al bellissimo “Interiors” (id. 1978). Redford gioca molto bene con la colonna sonora. Si tratta di variazioni sul Canone in Re Maggiore di Pachelbel. La prima volta che sentiamo la melodia, la musica è extradiegetica. Subito dopo entriamo in una scuola: è il coro che sta eseguendo il canone. Quindi diventa intradiegetica. Di lì in poi è facile capire il motivo delle variazioni sul tema: non uscire mai dalla storia. 

Quella musica fa parte del protagonista e come tale viene riproposta e variata, esattamente come varierà il protagonista nel corso della vicenda. La scelta stessa di un canone non è casuale. Certo, il motivetto scritto da Pachelbel è molto orecchiabile. Ma pensate a cos’è un canone. Ad una melodia base vengono sovrapposte progressivamente una o più imitazioni. La melodia del film è il lutto. Le “imitazioni” sono le reazioni dei tre protagonisti che, inevitabilmente, andranno a sovrapporsi. La sceneggiatura, scritta da Alvin Sargent, è perfetta. Non per nulla gli è valsa un Oscar – in totale il film ne ha presi quattro: miglior film, regia, sceneggiatura non originale e attore non protagonista a Hutton. Syd Field è noto per i suoi manuali di sceneggiatura strutturalista. Gente Comune appare molte volte nel suo “The Screenwriter’s Workbook”. 

Questa sceneggiatura è un perfetto esempio di… tutto. La trasformazione dei personaggi, ad esempio. Il giovane Tim Hutton subisce una trasformazione enorme. All’inizio è chiuso in se stesso e introverso. Alla fine è capace di aprirsi e di esteriorizzare i propri sentimenti. Anche suo padre cambia. Comincia con l’essere formale e condiscendente, poi impara ad ascoltare davvero il figlio, trasformandosi in un uomo tollerante e comprensivo. Sutherland mette in discussione tutto: il suo atteggiamento, l’amore che prova per la moglie e il suo matrimonio. Mette in discussione i propri valori, bisogni, desideri e trova il coraggio di chiedere aiuto allo psichiatra del figlio. L’unico personaggio che non cambia è la madre. Definita nelle indicazioni iniziali della sceneggiatura come “gentile e controllata” è una persona convinta che l’apparenza sia tutto. Nel corso della vicenda resta padrona di sé, con atteggiamenti e convinzioni inflessibili. Questo la rende l’antagonista “visibile” della vicenda, anche se i veri cattivi, in questo caso, sono i personaggi stessi. Nessuno ha ragione e nessuno ha torto: sono semplicemente loro stessi. Sono umani. Alla fine del film, padre e figlio sono cambiati, mentre la madre no. La famiglia si divide. Nell’ultima scena, padre e figlio siedono sotto il portico, dopo che la madre se ne è andata. La sua partenza li ha riavvicinati. 

 Gente Comune ha un primo atto fenomenale. Per chi non lo sapesse, un film si sviluppa in tre atto. Il primo, definito “Impostazione”, ha il compito, appunto, di impostare la storia. Dura in genere 30 pagine (circa 30 minuti) a loro volta divisi in blocchi di 10 pagine. Le prime dieci introducono lo spettatore ai protagonisti. Tim Hutton prova nel coro, sua madre è a casa – una casa decisamente troppo linda e pulita – e Sutherland è in treno. Sta tornando a casa dal lavoro. Qualcosa però non va in questa famiglia perfetta. Qualcosa nel viso di Tim ci dice che qualcosa non va. Scendendo dal treno, qualcuno dice a Sutherland: “Siamo addolorati per tutto”. Ottimo esempio di premessa drammatica: abbiamo capito chi sono i personaggi e sappiamo che qualcosa non va. Ma non cosa. Nelle successive 10 pagine viene definito il protagonista: vediamo Tim a scuola e ci accorgiamo di come tutti i suoi rapporti con le altre persone siano tesi. Quasi finti. A scuola, Hutton chiama il dottor Berger (Judd Hirsch), uno psichiatra. Gli dice: “Mi ha dato il numero il dottor Crawford dell’Hillsboro Hospital”. Sappiamo che il protagonista è stato in ospedale, ma non perché. Nelle successive 10 pagine, Hutton va dal dottore. Veniamo a sapere che il giovane è stato in una clinica psichiatrica perché ha tentato di “togliersi di mezzo”. Ecco la definizione del problema in sé: Conrad ha tentato il suicidio e va da Berger per “Riprendere il controllo… così gli altri la smetteranno di preoccuparsi per me”. Questo è il primo atto, che imposta tutta la storia. 

È perfetto. Gente Comune è un film da vedere. È in grado di parlare di cose molto serie – suicidio, lutto, falsità borghese e così via – senza risultare pesante o peggio, moralista. Resterà per sempre uno dei film più belli sul perdono e sulla realizzazione di sé. Una di quelle pellicole che quando finisce ti lascia qualcosa.

Baccalà agrodolce alla ligure
Ricetta da Giallozafferano


Ingredienti: 
 Merluzzo 650 g 
 Zucchero 20 g 
 Aglio 2 spicchi 
 Salvia 3 foglie 
Aceto di vino bianco 10 g V
Vino bianco 100 g 
Farina tipo “00” 30 O
Olio di semi 500 g 

http://ricette.giallozafferano.it/Baccala-agrodolce-alla-ligure.html
Per preparare il baccalà agrodolce alla ligure, prendete il baccalà già dissalato e spellato (se utilizzate baccalà sotto sale serviranno almeno 3 giorni di ammollo). Dividete il filetto in pezzi. Una volta tagliato potrete anche togliere tutte le lische presenti con una pinza da cucina. Quando avrete terminato infarinate tutti i pezzi scuotendoli con delicatezza, in questo modo eliminerete la farina in eccesso. Intanto versate abbondante olio di semi in una pentola dai bordi alti e quando sarà ben caldo cuocete un paio di pezzi alla volta, per 4-6 minuti anche in base allo spessore, ad una temperatura compresa tra i 180° e i 190°, fin quando non saranno ben dorati. Mano a mano che cuocete i pezzi di baccalà, scolateli su carta assorbente. Preparate la salsa: sbucciate e affettate finemente gli spicchi d’aglio: un paio di millimetri andranno bene. Tagliate a listarelle le foglie di salvia. In una pentola versate il vino bianco e unite le fettine d’aglio, l’aceto e infine lo zucchero e la salvia. Accendete la fiamma bassa e lasciate che il composto riscaldi per bene e che lo zucchero si sciolga. Non appena lo sciroppo sarà in ebollizione unite i pezzi di baccalà fritto e cuocete per altri 5 minuti rigirandoli di tanto in tanto per farli insaporire per bene. Quando pronti, impiattate i vostri pezzi di baccalà agrodolce alla ligure e servite ben caldi!